domenica 20 novembre 2016

Sardegna come un Matrix.





"La Sardegna non esiste. Non esistono nemmeno i Sardi. Tutto ció che sai della Sardegna è Matrix: non esistono un milione e 500 abitanti, i paesi, le città, i monti, il Flumendosa, i canneti e i Muggini. Tu stai assistendo a un film. Tutto ciò che conosci della Sardegna non dipende dal tuo intelletto o dal tuo sentire, dipende dalla "narrazione" che viene fatta della Sardegna. Questo vale che tu sia Sardo o Romano o Inglese. Si, hai visitato la natura e la cultura dell'isola, ma sei prevenuto, perché un entità intellettuale che presiede al tuo sentire, di cui non sei assolutamente padrone, ha introiettato nel tuo bagaglio culturale una serie di preconcetti, che dominano persino le tue capacità ricettive. E' per questo che guardi i Sardi con sufficienza, che adori i giganti di Monti Prama ma sotto sotto ritieni superiori e immensamente più suggestivi i bronzi di Riace o il Discobolo di Mirone."
Questo è quello che immagino essere il succo del pensiero di tutti quegli intellettuali che utilizzano la parola "narrazione" nei loro discorsi, articoli o brevi saggi che esaminano la situazione culturale della Sardegna. O per lo meno di quegli intellettuali che intendono, a mio parere, attribuire un potere strumentale o politico a ciò che è narrazione, immagine.
Ogni volta che leggo la parola "Narrazione" mi viene l'orticaria. L'intellettuale che la utilizza rischia di attribuire una fede spropositata a un sistema di concetti, dimenticando la fonte di ogni potere e di ogni forma di creatività: il proprio sentire. Io non dipendo dall'immagine, io non ne sono il padrone, ne sono artefice, come tutti.


Pensavo che la narrazione fosse una prerogativa degli scrittori, dei romanzieri, che appartenesse all'universo della vitalità creativa, dello spirito dell'uomo, del bambino che inventa storie, dell'adulto che parla di se, che si esprime col bagaglio della sua esperienza e delle sue credenze, ed ecco che invece me la ritrovo come il grande imputato, la colpevole dei mali che affliggerebbero l'isola di Sardegna, la grande bugia: ci stiamo raccontando male, peggio, qualcun'altro (il nemico), ci sta raccontando male. Non è importante ciò che siamo e ciò che viviamo ogni giorno, non conta la tua vita, le tue relazioni non contribuiscono al futuro della collettività, è l'immagine che fa tutto questo, e tu non ne sei il padrone, i padroni della tua immagine sono gli intellettuali e i politici. In questo senso l'esperienza individuale è ridotta a un margine insignificante e insensato se non possiede la facoltà di raccontare e di contribuire al grande amplesso della narrazione. Perché secondo questo pensiero, dove il potere si sposta dall'esperienza dell'individuo alla sua immagine, tu che non ti racconti non vali nulla, anzi, non esisti. Sono io, scrittore, artista o creativo che ti domino perchè ti racconto.


I giganti di Monte Prama?
Non ne stanno parlando i media, non li raccontano.
La cultura nuragica?
Raccontata male. Travisata.
I moti antifeudali?
Raccontati male, troppi preconcetti.
La cultura agropastorale?
Raccontata male.
Gli artisti Sardi?
Raccontati male.
Gli operai Sardi, gli gricoltori, gli imprenditori?
raccontati male.

Se qualcosa non va della Sardegna è perchè te la stanno raccontando male. Pare che tutto sia cominciato con Cicerone: è stato lui il primo a raccontare bugie sulla Sardegna, poi hanno continuato
i Pisani, i Genovesi, gli Spagnoli, i Savoia. Per qualche strano motivo hanno riversato sui Sardi tutto il loro malessere e la la loro violenza psicologica creando, tramandando e imponendo il più malefico racconto di tutti i tempi.
Ma se la Sardegna è raccontata male, la Sardegna da raccontare dov'è? Dove la trovo, dove la vivo, dove posso farne esperienza, quale è questa Sardegna autentica? Prima ancora dei Sardi e di un fantomatico popolo Sardo, esistono gli individui, la vita, le persone, che ci sono care a prescindere dalla lingua che parlano o dal luogo in cui sono nate e della cultura di cui sono portatori/testimoni. Allora per parlare di Sardegna bisogna dimenticarla, anche a costo di ucciderla. Dimenticare di volerla raccontare, di volerla dipingere, di volerne fare degli acquerelli. Dimenticare di fare esperienza non in un isola di concetti, ma in un universo vitale fatto di persone, natura, città e paesi. Forse questo è il modo migliore per raccontare qualsiasi cosa, per approcciarsi al fare creativo, a qualunque forma espressiva.


Ogni libro, che sia un romanzo o un saggio, un libro di storia o di folklore che parli di Sardegna è un racconto in cui immergersi, non una favola in cui credere. Ogni spot televisivo, ogni manifesto, ogni maglietta, ogni souvenir, ogni icona sulla Sardegna è una informazione che mi trasmette una emozione che non racchiude  nessuna verità. Nessuno deve salvarsi, nessuno è sottomesso all'immagine; solo chi si butta nell'acqua, o nel ruscello per afferrare il proprio riflesso rischia di morire.
Erano le favole che i genitori ci raccontavano da bambini quelle in cui ci perdevamo, e forse allora si era più consapevoli che quella favola fosse un'illusione in cui perdersi, con mamma e papà che ci davano sicurezza, non il racconto in se. E' il desiderio di trovare una qualche rassicurazione definitiva nel racconto, l'esigenza di trovarvi una sorgente vitale, è questo tentativo, è questa illusione che svilisce il potere creativo della narrazione e la trasforma in un totem da adorare a cui essere asserviti. Nessuno è il custode del totem e tutti ne siamo artefici, esso è soltanto uno specchio distorto nel quale crediamo di tanto in tanto di scorgere noi stessi, e il popolo al quale crediamo di appartenere.
Piuttosto io sono custode del mio sentire, che non precipita se la Sardegna viene rasa al suolo, o se prendo una botta in testa e perdo la memoria. Ecco, vorrei perdere la memoria, non sapere più nulla e poter fare esperienza di tutto ciò che viene definito come Sardo: vedere i giganti di Monti Prama, visitare un Nuraghe, camminare per Cagliari o per Fonni, leggere un libro sulla Sardegna, fare amicizie e vedere che impressioni ne ricevo, cosa sento. Sarebbe la vita, prima ancora di un popolo, quello di cui farei esperienza.
Ma questo non è possibile, nessuno perde la memoria, la si elabora di continuo. L'immagine, la narrazione, non è un mezzo di trasporto, piuttosto un combustibile. Nessuno ne è il padrone, essa appartiene a tutti e se ti dai da fare per cambiarla ne sei già schiavo.