giovedì 2 maggio 2019

I giganti non fanno paura.





L’altra sera, precisamente venerdì scorso, ho finito di lavorare come mio solito alle sette e mezza. Avevo un blando e poco convinto programma per la serata: sarei tornato a casa, mi sarei fatto una cenetta e visto un bel film. Prima però dovevo passare dal mio corniciaio di fiducia a far mettere il passepartout a un acquerello realizzato il giorno prima. 
Il cielo però era bellissimo: uno strano, acceso celeste interrotto da soffici blocchi di nuvole dorate. Ne sono affascinato: ho la macchina fotografica in macchina e sono tentato di mollare il corniciaio e andare al pontile a scattare qualche foto. Sono indeciso perché tra poco terrò una mostra e non voglio fare le cose all’ultimo momento ma… quel cielo è fantastico, la luce mi attira e allora decido per il pontile.








Arrivo al parcheggio sui bordi della pineta, giro subito sulla sterrata a sinistra e parcheggio sul bordo della strada. Scendo di fretta a scattare delle foto perché ho paura che quella luce si disperda da un momento all’altro, ma dopo pochi scatti mi rendo conto che ho tutto il tempo perché evidentemente, a causa delle condizioni atmosferiche e delle nuvole in cielo la luce gialla continuerà a persistere fino al tramonto.
Così fotografo uno dei miei soggetti preferiti, la Sarda Perlite, uno stabilimento ancora in uso,
ma che appare fatiscente e quasi abbandonato. Tra acquerelli e bianco e nero credo di averlo ritratto almeno sette o otto volte. Quella sera avevo in macchina anche il treppiede, dunque ho deciso di stare fino al calar del sole, fin quando lo avessi continuato a desiderare, per testare la mia nuova macchina fotografica e fare le prime foto in notturna ( cosa che non ho mai fatto in vita mia ) e cercare di cogliere il mistero delle ombre.








Quella sera il vecchio stabilimento era particolarmente affascinante, incorniciato com’era dalle nuvole e colpito dalla gialla luce radente. Spesso cerco di analizzare i soggetti e comprendere che cosa mi attira e come si comporta lo sguardo nell’esplorarli, a come esso sia anche una reazione a espressioni della psiche sollecitata dai giochi delle forme, dei colori e delle ombre, vibrazioni che rimandano agli echi dell’inconscio e delle paure personali. Sì, forse la Sarda Perlite ha a che fare con la paura. Non è solo un gioco di linee, di prospettiva, credo che il discorso sia davvero complesso, e ridurre un lavoro a un semplice gioco di profondità sarebbe davvero riduttivo, inutile, insignificante e per nulla appagante. Sono una persona e probabilmente ho anche un anima e la mia anima è composta di paure e desideri e non credo di potermi ridurre a un semplice geometra della profondità.






In particolare ho notato che sono affascinato e incuriosito dalle varie passerelle, tubi, scale, travi, balaustre, ponteggi, pilastri e nastri trasportatori che sormontano e collegano i quattro enormi silos che compongono parte dello stabilimento, un groviglio di metallo e ferro che fa pensare a un enorme insetto pronto ad afferrare gli enormi serbatoi e trasportali in qualche galassia lontana. I serbatoi sono molto particolari; grosse cerniere di ferro si muovono in orizzontale e verticale, stringono le lamiere ossidate dal tempo e dalla salsedine e ne modellano lo spazio disegnando grossi rettangoli che esprimono ciascuno differenti tonalità cromatiche, più calde o più fredde che vanno dal viola al blu, dall’arancio alla terra rossa.








 Di fianco ai quattro serbatoi riposa una grosso parallelepipedo triangolare, e cosa ci facciano dentro lo ignoro, forse un deposito: sembra un enorme granaio ma per quanto mi riguarda potrebbe anche essere  una fetta di formaggio ciclopica caduta sulle dune e lì dimenticata da qualche gigante del passato che amava bighellonare nella zona. Sulla sommità si apre una stretta feritoia che si sviluppa per tutta la lunghezza del tetto evidenziandone e allo stesso tempo astraendone la sommità.
Le ondulate superfici del deposito sono ingiallite dai fumi e dalle polveri sollevate dalla lavorazione della materia prodotta nell’impianto.
Sul lato opposto dello stabilimento si trova un altro capannone aperto su un lato, ma piuttosto che una apertura per il transito di mezzi sembra quasi uno sfondamento delle mura causato da qualche misteriosa esplosione. Una grossa voragine che va dal terreno fino al tetto esprime una inquietante oscurità dalla quale emerge a malapena, osservando con attenzione, la bianca macchia del materiale contenuto all’interno.





Di tanto in tanto una stanca sirena fende l’aria per annunciare il movimento di qualche sconosciuto macchinario. Solitari camion si muovono e s’alzano, polveri leggere invadono le strutture della fabbrica per poi sciogliersi nell’aria, nella sabbia, sull’erba secca.  
La notte questo sconosciuto mostro non mi fa paura, anzi, coi suoi tetti obliqui e le misteriose funzioni e meccanismi, nonostante le sue oscure cavità e gli insetti metallici d’altri mondi che sembrano succhiare il contenuto dei serbatoi, in qualche modo sembra che voglia darmi un senso di protezione con la sua grandezza, con i suoi enigmi.