Stamattina, mentre facevo colazione sorseggiando tè e mangiando i biscotti del mulino Bianco immerso nella piacevole lettura di un libro di Jonathan Franzen, con la coda dell'orecchio ho captato la voce di un un cronista del giornale radio mentre diceva che la cappella sistina era "Un grande spettacolo del rinascimento". Questa frase ha turbato il relax intellettuale del primo mattino e mi ha immediatamente messo in allerta.
Perché una frase apparentemente innocua (nient'altro che un cumulo di onde sinusoidali, una sequenza di vibrazioni nell'aria) è riuscita ad attirare la mia attenzione e mettere in ebollizione le connessioni neuronali? Che cosa ha risvegliato in me, quali contenuti psichici ha messo in subbuglio? Quali turbe mentali ha attivato? Il conflitto edipico e la suzione mammellare prematuramente interrotta? La fase anale frustrata da un padre troppo severo? Chissà.
Ma Indaghiamo seriamente, andiamo oltre Freud e l'interpretazione dell'invidia del pene.
Mi piacerebbe tirare in ballo il situazionismo e Guy Debord, che sono stati dei punti di riferimento importanti nel mio percorso artistico, ma per giustificare e dare un senso alla tensione che ha suscitato in me la frase del giornalista, sarebbe pubblicamente scomodo e obsoleto rifarsi a Debord e la critica situazionista, tirare in ballo citazioni pompose e capriole concettuali ardite. Inoltre le avanguardie sono decisamente demodè di questi tempi e il ricordo del loro slancio utopico sembra ormai suscitare uno spazio di disperata malinconia negli artisti contemporanei, quando non addirittura una vera e propria compassione accorata. Quindi le citazioni ad effetto non sarebbero semplicemente scomode, ma persino insoddisfacenti a livello personale, perché persino io, come il buon Guy, se persisto a dare uno sguardo al panorama della cultura e della società contemporanea, mi sento portato a un buon colpo di archibugio alla testa, la mia testa. Dunque perchè seguire delle orme che conducono al suicidio? Piuttosto, per approfondire i motivi che sono alla base della mia allerta bisogna davvero fare un salto in se stessi e raccomandarsi al ben più conosciuto, simpatico e cinepopolarissimo Yoda, il pupazzo più saggio dell'universo, e in particolare al suo motto principale: "Usa la forza", nel mio caso la forza interiore che non dipende da concetti altrui, ma piuttosto se ne serve di riflesso, proprio come uno Jedy si serve della spada fluorescente per distruggere il nemico.
Ed eccomi qua, nella mia forza, a pormi domande impossibili: quand'è che un affresco, un'opera d'arte, diventa uno "spettacolo"? E quale è la differenza tra uno spettacolo e un'opera d'arte?
Considerando che la cappella Sistina era riservata a importanti uffici tipo l'elezione del Papa e altre cose papali di alto rango per me incomprensibili e considerando che essa è collocata all'interno del palazzo apostolico, ovvero la sede del Papa, possiamo porci una domanda: siamo sicuri che nel 500 un umile contadino, artigiano, fabbro o panettiere, potesse godere liberamente dell'elevato "spettacolo" offerto dalla cappella Sistina? Perché per "spettacolo" solitamente si intende proprio questo, cioè un lavoro creativo destinato a un pubblico eterogeneo. Mentre nella cappella Sistina, per quello che ho capito io, potevano entrare solo sacerdoti, vescovi o importanti personalità ecclesiastiche. Dunque in quel periodo la cappella Sistina parlava non all'umile, al popolo, ma agli stessi capi religiosi che si automagnificavano attraverso gli affreschi di Michelangelo.
Mi piacerebbe sapere quando la Cappella Sistina ha cominciato ad essere un luogo pubblico a disposizione dell'immaginario collettivo, e poter essere ammirata da tutti. E mi piacerebbe entrare nei panni di un sacerdote o di un contadino dell'epoca per vedere se, avendo la possibilità di visitare la Sistina, la percepissi come uno "spettacolo". Perché in fondo è questo quello che credo: che parlare di spettacolo rispetto a un qualsiasi affresco rinascimentale sia in qualche modo non pertinente e... forse un po' limitante.
Ma a prescindere da chi potesse entrare o meno nella cappella, e dunque a prescindere da quanto possa essere etimologicamente corretto l'utilizzo della parola "Spettacolo" nel caso della cappella Sistina, ciò che mi interessa è prendere spunto dalla suddetta frase per ampliare la mia scoppiettante riflessione.
Un opera d'arte non è fatta per soggiogare, incantare, condizionare o intrattenere, questo è solo il lato esteriore dell'opera. Nello spettacolo invece, questi ne sono gli obiettivi primari, il fulcro e l'interesse centrale del lavoro. Lo spettacolo è a disposizione dell'arte, ma l'arte non è disponibile allo spettacolo. Un'opera d'arte può essere spettacolare, ma non uno spettacolo. L'arte crea un varco, è una porta verso i paesaggi interiori, quelli capaci di lasciare un segno al di là delle collocazioni storiche, al di là dei modelli concettuali di riferimento. Sono maggiormente attratto dal raccoglimento, non dalla provocazione. La buona opera d'arte ti sollecita al di là della provocazione dei sensi tanto cara allo spettacolo. Di fronte a un'opera voglio sentirmi sveglio, teso, stimolato, ma in pace con me stesso, per i tormenti interiori abbiamo una folta schiera di psicologi a disposizione; se un'opera ti tormenta, è probabile che tu sia una persona chiusa, che rifiuta qualche lato della propria sensibilità. Non ho bisogno che l'arte mi provochi, sono già abbastanza aperto alle provocazioni che la vita quotidiana mi offre. L'arte risveglia, e la provocazione, quando c'è, è solo una dei suoi tanti aspetti.
Ho amato le avanguardie e le amo ancora, e tra queste sopratutto il Dadaismo e Antonin Artaud: qualcosa del Dadaismo e di Artaud è in me - forse il bisogno di giocare con l'arte e il desiderio di libertà assoluta?
Com'erano seducenti il teatro della crudeltà, il carattere aggressivo delle avanguardie, la disperazione esistenzialista, l'evasione surrealista, l'antagonismo dell'immaginazione al potere! Atteggiamenti spontanei, utili a colpire e frangere le dure barriere del conformismo dittatoriale del secolo scorso, o in taluni casi, come per il futurismo o le avanguardie russe, a supportarne torbidamente quegli aspetti della società che allora potevano apparire nuovi e attraenti. E lo spettacolo era uno dei mezzi di cui le avanguardie si servivano per incidere nella società e nella cultura, che esse si proponevano di cambiare, di plasmare, di orientare.
Ma le avanguardie non sono più quel punto di riferimento importante che erano nella seconda metà del 900. Oggigiorno non avvertiamo nulla da abbattere, non vediamo un conformismo da colpire, una rivoluzione da seguire, non crediamo in un futuro da immaginare. Rispetto ai tesissimi anni del dopoguerra o ai primi decenni del 900 ci sentiamo un po' tutti zombizzati, siamo alla deriva, e non si vede un alito di vento ad increspare il mare. Ma in fondo perché issare le vele al cielo se l'aria è ferma e il mare calmo? Perchè non godersi il sole e farsi cullare dal lieve dondolio della barca?
Oggi sentiamo l'esigenza di guardare altrove, ma dove?
L'arte e gli artisti non sono più dei rivoluzionari, piuttosto degli esploratori, e anche un po' acciaccati, perché talvolta appaiono invischiati e coccolati dalle trame dei "curatori" d'arte. Per non dimenticare le avanguardie e tenere vivo il loro insegnamento credo che si possa interpretare la "crudeltà" di cui furono portatrici come la capacità di essere sinceri e profondi nel lavoro artistico. L'arte d'oggi non è crudele, è patinata, come la gioiosa alienazione dell'uomo moderno che si concepisce come un sensibile robot disposto a tutto, ma come può un robot essere sensibile? Il robot non sente nulla, il robot non è tormentato, il robot fa quello che gli viene detto, quello per cui è programmato.
L'arte é per l'uomo, e non è mai abbastanza, non è mai soddisfacente, mentre lo spettacolo è per i robot, è la loro carica, il loro programma di lavoro, e cosa sarebbe un robot senza spettacolo? Quello che è: un meccanismo privo di funzione, un insieme di ingranaggi, chip, cavi elettrici e software. E un uomo senza arte cosa sarebbe? Non somiglierebbe forse a un robot che ha bisogno di spettacolo per mettersi in funzione?
Siamo come zombie robotizzati affamati di spettacolo ed eventi, alla deriva nello spazio illusorio della condivisione emoticonizzata, nell'attesa di un domani che non arriva, e segretamente, scappiamo dal burrone dandoci bacetti, strette di mano e sorrisi.