sabato 19 settembre 2020

Due parole su come ho reagito ( a come hanno reagito le persone ) alla pandemia.

Qualche tempo fa ho scritto un post prendendo come spunto il caso Bocelli. Avevo scritto che anch'io mi ero sentito umiliato e offeso. Dopo le reazioni che ho suscitato (ovvero come se avessi bestemmiato nudo dentro la chiesa di San Pietro ) ho però cominciato a domandarmi se davvero mi fossi sentito così quando il Lockdown è stato emanato. A volte è difficile dare un nome a ciò che si prova, e in casi eccezionali come questo lo è molto di più e una parola spesso non basta e nemmeno una chiacchierata e forse nemmeno un giorno di terapia. Perciò sarebbe bello se potessi parlare serenamente di questo e sopratutto senza tendere a schierarmi da nessuna parte o voler confermare tesi, difendere approcci, o cercare conferme, ma se lo faccio è perchè è un fatto umano e anche utile alla società e a noi stessi. Perciò, siccome persino il Lockdown non è stato come una bomba esplosa da un momento all'altro, allo stesso modo i miei umori verso pandemia, quarantena, dispositivi e norme di comportamento etc. hanno seguito l'andamento della pandemia e dei vari decreti emanati. Perciò voglio adesso qui provare a riassumere come ho vissuto un po' tutto quell'arco di tempo.
All'inizio, quando si parlava del Covid ero scettico sulla sua gravità, e mi sorprendeva vedere come tutti seguivano la cosa e cominciavano ad allarmarsi e prospettare scenari che mi sembravano assurdi. Poi sono finito pure io in una specie di autoquarantena perchè un mio amico era stato male e avevamo avuto contatti e allora finalmente mi sentivo parte di quello che stava succedendo, mi hanno pure portato la spesa in casa, come si faceva a Milano o Bergamo, cioè eravamo dei casi da tenere sott'occhio, roba serissima.
Poi ci sono state le prime chiusure e quindi il lockdown e tutte le limitazioni e pensavo che fosse strano che i supermercati non chiudessero il sabato e la Domenica. Ero tranquillo anche se sempre scettico e non capivo la paura e l'allarme. Mi costruivo delle cretinissime mascherine con la carta da forno e pensavo "ma perchè cazzo queste mascherine non le fanno indossare a tutti?" Difatti, poichè le mascherine non erano obbligatorie e manco se ne parlava granchè nonostante il virus fosse ormai diffuso, sviluppai l'idea che le mascherine contribuiscono sì a non diffondere il virus, ma fino a pagina 2, per motivi che non starò qui ad approfondire. E tutt'ora lo penso. Perciò quando i vari sindaci che non sapevano che pesci pigliare, dopo due mesi che si parlava di questa benedetta pandemia, si sono svegliati cominciando a emanare leggi sull'utilizzo delle mascherine, la cosa mi ha preso male e la mia impressione fu che l'obbligo di mascherina non fosse altro che un surplus normativo deciso dai politici solo per far vedere che stavano facendo qualcosa per i cittadini. Ad ogni modo, per il famoso, adorato e quasi dogmatico principio di precauzione, le uso come le usano tutti, anche con una certa gratificazione, tutto sommato. Poi, e qui arriva il bello, il Lockdown è diventato sempre più serrato: chiusura di parchetti, chiusura delle sezioni di cartolibrerie e scolastica, varecchina per strada, mascherine all'aperto guanti etc. Queste notizie mi prendevano molto male. Poi la botta: non si può uscire di casa se non entro i 200 metri. E lì mi sono girato di coglioni. Ma molto, e ora lo posso dire, e quindi correggere il tiro rispetto a quanto ho boccellianamente detto, che mi sentii, tra i vari e contrastanti sentimenti, anche sopraffatto e impotente. Non ero più quello che si faceva le mascherine, era quello che doveva stare in casa. E tutte le menate sulla solidarietà, sul prendersi cura dell'altro, sulla paura dei cittadini, per me erano e sono menate televisive. Tutto questo lo faccio perchè sono un buon cittadino, non una brava persona. Beh si, forse sono anche una brava persona in fondo, ma...a questo punto sorge una domanda filosofico-antropologica: dove inizia la persona e dove comincia il cittadino? Mamma mia... questa è una bomba di domanda eh... quindi ora potrei dedurre di me stesso che sono uno stronzo insensibile, ma sono un buon cittadino. Ai posteri l'ardua sentenza. Ma ritorniamo al sentimento di sopraffazione, a quei duecento metri che dovevano essere il nostro spazio vitale. Io, che vivevo in un paesino di 1000 abitanti e che avevo la campagna a 200 metri, dove, anche quando non esisteva il coronavirus, non c'era anima viva per le strade, adesso non potevo uscire e farmi i SACROSANTI CAZZI MIEI.
A tutt'oggi, tutte le risposte che mi si danno a motivazione di questa disposizione e il fatto che fosse una cosa temporanea continuano a lasciarmi perplesso su quale ruolo e in quale tipo di gratificazione debba soddisfarsi un cittadino obbligatoriamente confinato nei duecento metri adiacenti la sua casa. Dopo questa misura restrittiva ho cominciato più seriamente a interrogarmi sulla libertà e se lo stato è in grado di privartene, se ce ne abbiamo una e dove la nascondiamo e come dovrei farne uso. Credo che le risposte a questo siano molteplici e mai definitive o completamente soddisfacenti. E' bello parlare di libertà quando lo stato te la garantisce, ma quando lo stato decide di usarla in virtù del fatto che te la garantisce, parlarne non fa più tanto piacere ma diventa una roba molto seria, per questo motivo, qualcuno preferisce concepirla come un illusione o come un condizionamento e circoscriverla unicamente al campo spirituale. Credo che la libertà abbia a che fare coi sentimenti e con la responsabilità individuale, oltre che con le leggi dello stato. Con me non funziona la frase spirituale "Tu sei libero se lo vuoi". Con me funziona la frase: "tu stai male e molto". Mi rende più libero. Tornando al lockdown : quando le misure si sono allentate ovvero quando si è ripreso a poter uscire oltre i 200 metri, anche se non si poteva andare negli altri comuni a fare la spesa, allora mi sono tranquillizzato di nuovo. Ma il malessere mi sorgeva e mi sorge tutte le volte che guardavo telegiornali o scrollavo FB e sentivo gente esortare"gli stolti" a usare le mascherine quando non a offonderli. Ovvero 20 ore su 24. Ecco questo in sostanza è quello che ho provato. Ora mi sento meglio, mi sento più confuso di prima, dunque sto bene.



martedì 28 luglio 2020

Libertà e disagio da pandemia.



Edouard Levè, serie "Quotidien".


Anch'io mi sono sentito umiliato e offeso da alcune misure contenute nel Lockdown emanato dal governo per contrastare il diffondersi del virus. E anche dall'atteggiamento di buona parte dei cittadini. Non solo; mi sono sentito impotente, completamente inutile e anche un po' idiota, e a volte mi sono sentito anche un privilegiato. Ma anche un po' come uno che si nasconde in attesa che...boh. Certo non sarei mai andato a dirlo ad un convegno di negazionisti organizzato da Sgarbi.
E' dura la vita di noi che ci sentiamo umiliati ma non troviamo nessuno di convincente a confermarci che viviamo in un sistema totalitario e che propaganda, conformismo e paura hanno preso il posto dell'informazione e dei normali scambi umani. Perchè puoi anche avere quell'impressione, suscitata ogni giorno dalla visione di TG, stampa, contatti FB, amici che la pensano in un certo modo o amici che non la pensano affatto,  parenti o amici pronti a condannare, offendere e giudicare severamente o peggio esprimere rabbia  e frustrazione verso chi "non segue le disposizioni". Ma, se quelle impressioni non sono confermate, o condivise, restano appunto quello che sono: impressioni, che sono comunque parte della tua personalità, e vanno coltivate, espresse, rispettate.


Edouard Levè, serie "Pornographie"


E' dura la vita di noi che ogni giorno non riusciamo a rinunciare a uno scroll su FB e assistiamo a cascate di bempensantismo umanitario, moralismo regressista, realismo orwelliano e solidarietà fondamentalista.
Si dirà, come ho detto, che è solo una impressione personale. Si tireranno fuori numeri, statistiche, studi scientifici. Si dirà che le informazioni ci sono, si dirà che i media sono sì corrotti, ma che lo sono da sempre, che è la fisiologica corruzione dei media e che nel complesso esprimono un sostanziale equilibrio democratico. Si dirà che i morti ci sono, si dirà che i contagi ci sono anche se la carica virale è bassa e allora si evocheranno Bergamo, Milano, le sirene, l'esercito con le bare. Si dirà che Orwell ci ha fatto male, che abbiamo letto troppi romanzi distopici, che stiamo travisando tutti gli insegnamenti che fin qui abbiamo tratto dai libri e dalla tradizione democratica, che mettere in gioco la libertà in una condizione come questa è fuorviante e fuoriluogo, esagerato. Si dirà, in sostanza, che bisogna avere pazienza.


Edouard Levè, serie "Pornographie".


Quanto è dura la vita di noi persone impressionabili e un po' egoiste che pensiamo troppo semplicemente al concetto di Libertà e democrazia. Che sembrano essere diventati più dei concetti che dei valori: ognuno, grazie anche ai social è libero di esprimere la propria opinione. Passiamo più tempo a esprimere opinioni che a esprimere libertà. L'opinione è sopravvalutata. Credevo che un valore desse maggiori certezze, o quanto meno delle basi. Sembra che non sia così. Sembra che la libertà sia troppo poco importante per essere motivo di disagio.
Dunque che importa se mi devo mettere la mascherina o devo stare chiuso in casa? Che importa se ho paura di abbracciare quella tal persona o se quella persona ha paura di abbracciare me? Che importa se devo mantenere la distanza di un metro da chiunque? Che importa se oltre a essere considerato un consumatore sono considerato anche un portatore di malattie? Finchè posso beatamente esprimere tutto ciò che penso attraverso i social comodamente seduto nella panchina di un centro commerciale climatizzato, o nelle chat su WAzzap, nei ritrovi su Zoom, che importa? Si dirà che è solo un condizionamento, un'abitudine come un'altra, che tutto questo è per il bene del prossimo, per il bene dei tuoi cari, dei tuoi amici, dell'anziano 80 enne, e che per il proprio bene c'è sempre spazio, ma da qualche altra parte.


Edouard Levè, serie "Reconstitutions".


Edouard Levè, serie "Reconstitutions-Reves reconstitués"


Quanto è dura la vita di noi a cui piacerebbe avere la conferma che questa è una dittatura tecnomedicalizzata, che la libertà non è più un valore fondamentale, che l'umanità stessa è degradata a sentimenti di controllo che opprimono la libertà personale, e che ora tutto questo, a causa dell'emergenza, è pericolosamente incoraggiato quando non obbligato dalle istituzioni. Si dirà che ognuno è padrone della propria umanità, si dirà che qualche norma di comportamento non pregiudica i sentimenti umani, si dirà che qualche cambio di abitudine non ci precipita negli abissi del totalitarismo.
Forse so cosa è la libertà. Forse. Non fingo di conoscerla. A parte l'amore profondo e la bellezza, che ritengo la base di qualunque cosa, si può essere liberi in qualunque condizione, a patto che ci si assuma la responsabilità di rispettare i propri sentimenti, e di conseguenza quelli degli altri, non per essere dei buoni cittadini, per benpensare o cercare qualche forma di integrazione, ma per poterli esprimere partecipando con pienezza e senza soggezione alle esperienze che la vita ci porta. Anche con carattere contestativo, dissidente o utopico, tutti atteggiamenti che sembrano così essere "fuori moda" oramai, ma che, oltre a rappresentare una parte importante dell'attitudine psichica, potrebbero tornare ad essere parte importante nei meccanismi di ripresa culturale e democratica di un paese.

mercoledì 29 aprile 2020

Fattorie e cieli.





Questo dipinto l'ho realizzato lo scorso anno in occasione della mostra organizzata a Villanova Truschedu. C'è poco da dire, è venuto piuttosto bene. E le aziende agricole sono un mondo interessante da esplorare perchè sono un miscuglio tra natura, meccanica, ordine e caos. Galline, maiali, cavalli, cani, gatti pecore, capre, vacche, odori rumori e tutto ciò che si muove in questo mondo lì lo puoi trovare. Quindi per un certo periodo ero interessato a trovare soggetti di questo tipo ma il problema è che devi avere il permesso di entrare, e siccome io quando cerco un soggetto mi prendo parecchio tempo e rimango due ore a gironzolare osservandomi attorno, curiosando, facendo foto, e magari a volte non trovo neppure il soggetto e dunque non dipingo, allora sono in imbarazzo prima di decidermi a chiedere di poter entrare in una fattoria perchè penso che mi guardano stortissimo. Ad ogni modo quella volta tra Villanova e Ollastra, nelle due aziende che mi hanno ospitato sono stati molto gentili e non mi hanno guardato storto. Rimane sempre un po' di timidezza lo stesso.




In questi giorni a causa della quarantena ho dovuto dare un taglio al mio desiderio "psicogeografico" di esplorazione dei luoghi e mi sono concentrato su un soggetto che ormai da tempo stava attirando il mio sguardo: il cielo. Il Cielo è fantastico. Ne ho già parlato se non sbaglio, ma ne parlo di nuovo.
Poichè la pittura ad acquerello comporta una serie di sorprese ed effetti (quasi) incontrollabili, e poichè volevo in qualche modo padroneggiare la concretezza del colore per rendere la sensazione di spazialità e vastità trasmesse dal cielo, già da tempo avevo intenzione di provare ad utilizzare i colori ad olio. Cosa che sto facendo. La pittura ad olio è molto diversa da quella ad acquerello. Per iniziare ho comunque fatto alcune prove dal vero cercando di terminare il lavoro entro due-tre ore. Adesso sto provando a fare una prima mano, attendere una settimana che il colore si asciughi e continuare con una seconda mano cominciando a dare carattere al lavoro, per poi eventualmente riprendere con passaggi o ritocchi successivi. Sono ancora in work in progress, quindi questa metodologia è ancora tutta da esplorare e rivedere, ma più o meno, adesso lavoro in questa maniera.






Non potendo uscire per comprare tele, avevo una sola grande tela che ho suddiviso
i cinque parti, per esercitarmi su dimensioni ridotte, nelle quali mi trovo maggiormente a mio agio.
Il lavoro non è ancora terminato, come potete vedere.

Grazie all'olio inoltre si può cominciare a percepire come anche la tela e la pasta cromatica abbiano da parlare. Questa per me è una grande scoperta. Bisogna anzi trovare il modo che la tela e la pasta parlino insieme a te, e certe volte dicono più loro di te. Non posso però dire che sia solo la tela a parlare: perchè se è vero che senza lei non esisterebbe il miracolo della pittura, sono io che decido che pennello usare, che tela usare, e per quanto tempo devo lavorare, ecco perchè mi piace dire che io comunico alla tela e lei comunica con me per dire qualcosa a tutti, per scoprire qualcosa. Questo è un percorso lungo e non bisogna avere fretta. E' bello scoprire cosa la tela voglia dirmi in due ore, ma è altrettanto bello, con calma e pazienza vedere se la tela mi può parlare anche nei giorni successivi, scoprire se posso dirle qualcosa, e a volte questo sembra davvero difficile, a volte sembra terminato, altre volte si scopre che il fascino di un lavoro deve ancora essere scoperto. I cieli in particolare sono estremamente difficili perchè hanno minime varianti cromatiche e la loro grandiosità, la vastità che comunicano è difficile da riportare.
Sono combattuto tra lavori di lunga durata e lavori brevi, ma credo che in fondo i due approcci si compenetrino. Sicuramente per i lavori di lunga durata, ai quali mi ero disabituato, essendo che lavorarvo prevalentemente dal vivo, ci vuole pazienza e costanza e una certa disciplina. E pocihè mi sto in qualche modo abituando o comunque approcciando al lavoro "in live", all'improvvisazione, al flusso (anche in scrittura per esempio), i lavori di lunga durata li trovo più faticosi ultimamente. Beh. Questo è quanto.
Grazie dell'attenzione.

martedì 14 aprile 2020

L'osservatore silenzioso. Autopsia per una resurrezione.







Questa è la testa di un vecchio manichino che mio padre, per un certo periodo, utilizzò come spaventapasseri nel suo oliveto. O almeno, credo che volesse utilizzarla per quel motivo perchè, per diversi anni, la testa è rimasta in bella vista sinistramente conficcata all'estremità di un grosso palo che stava in un un punto dell'orto completamente incolto e colmo di imbarazzi e strumenti per l'agricoltura. La testa è così rimasta per anni in quel punto esposta alle intemperie, al freddo, al caldo, alla pioggia, al sole, all'umidità e a tutto quello che vi può venire in mente. 
Io di tanto in tanto andavo all'oliveto per raccogliere le olive, per suonare con gli amici, per fare provvista di legna, raccogliere aranci o per fare cene, e la testa stava sempre lì, ed ogni volta che andavo la trovavo un po' cambiata a causa delle suddette intemperie, ed ero sempre affascinato dalla sua strana staticità, quella espressione neutra e rilassata, e gli facevo delle foto. 

Adesso mio padre ha venduto l'oliveto, e prima che questo passasse ai nuovi proprietari ho deciso di prendermi questa testa che tante volte si era offerta al mio sguardo, tante volte mostrava i suoi cambiamenti, e quasi mi faceva compagna osservando in silenzio ciò che accadeva intorno a lei, incurante del tempo e dei cambiamenti che porta con se, registrandoli sulla sua superficie screpolata e abrasa. 
Adesso la testa è nel mio salotto, ma sto pensando di metterla in cortile per lasciare che il tempo le offra i suoi segni e lei li accolga con la sua instancabile immobilità.
Prima di questa pandemia stavo studiando un video per lei, un video con tutti i crismi da registrare con tre videocamere e con l'aiuto di diversi amici. Il video lo riprenderò appena sarà possibile, ma intanto l'altro giorno ho passato un pomeriggio a fargli delle foto, senza l'utilizzo d filtri e senza fare alcun editing con Photoshop. Queste sono quelle che reputo migliori.




























































mercoledì 1 aprile 2020

Noia, spleen, ozio e creatività.


Chi mi ha seguito su Facebook durante il periodo della mia ultima mostra, Closed out, saprà che nutro una certa curiosità per l'ozio, la noia e lo spleen. Non ho mai letto libri o  saggi di filosofia che ne parlino, ma faccio di meglio: lo uso. Si, uso l'ozio e la noia. Inoltre desidero parlarne perchè ritengo che nella nostra epoca tecnologizzata, la noia abbia subìto un drastico calo di valore e venga rifuggita.
Allora mi domando cosa accomuna l'ozio, la noia e lo spleen? Eppure sono tre cose diverse, diverse ma vicine. Di sicuro si può dire che tra le tre, l'ozio viene scelto, mentre è più difficile ritenere che uno scelga di annoiarsi o di sprofondare nello spleen. L' ozio inoltre può essere considerato una attività, mentre la noia e lo spleen sono condizioni emotive. Non è escluso però, che chi scelga l'ozio, anzichè trovarsi in una sorta di leggero benessere, cada negli "inferi" dello spleen. Ma è davvero infernale questo spleen?



Sembra che la noia sia quella comunemente ritenuta più fastidiosa, quella a cui si dovrebbe sfuggire, quella in cui solo gli ignoranti o i "nullafacenti" dovrebbero cascare, perchè "una persona intelligente, trova sempre qualcosa da fare". Ma la noia è semplicemente questo? Cominciamo ad esaminarla per avvicinarci ad essa con un esempio banale: la sala d'attesa dal dottore. Quello è il luogo dove tutti impariamo l'esperienza della noia, ma già qui abbiamo un elemento che rende questo tipo di noia diversa da un normale pomeriggio noioso: dal dottore non mi posso muovere, devo stare seduto, sono in pubblico e quindi sono portato  ad assumere un certo atteggiamento, mi trovo dunque in una sorta di "costrizione temporanea"; perciò la noia che si prova dal dottore è decisamente diversa dalla noia che si può provare, che so, in un pomeriggio domenicale.
Il pomeriggio domenicale invece ci può in qualche modo aiutare ad avvicinarci all'esperienza dello spleen. Poichè la differenza tra la noia dal dottore e la noia di un pomeriggio domenicale è data dal fatto che dal dottore sono "costretto" ad annoiarmi, mentre la domenica a casa mia, ho tutte le opportunità per tenermi occupato o incuriosirmi a qualcosa, e invece ciò non accade. Significa che sono proprio "io" (prendiamoci con le pinze) che vado verso la noia e allora non mi posso nemmeno lamentare di non avere cose da fare, non posso giustificarmi con le circostanze, sono proprio circondato da una specie di vuoto. Quindi ecco che la differenza tra noia e spleen ci può apparire come se la noia fosse una condizione nella quale ci troviamo nostro malgrado, causata da elementi esterni alla nostra volontà, mentre lo spleen è qualcosa che viene direttamente dalla nostra interiorità. Si potrebbe dunque dire che noia e spleen sono due condizioni simili ma hanno origini diverse. Il fatto di poter attribuire a cause esterne una nostra modalità emotiva, ci permette in qualche modo di "disconoscerla" e attendere che passi, magari con motti di fastidio e inquietudine e pensieri di quello che farai dopo (uscito dalla sala d'aspetto) e di quello che avresti potuto fare se non ti dovessi sorbire quelle due ore di attesa.



Questa inquietudine, questo fastidio, questo desiderio d'altro che sembrerebbero essere presenti nella noia è ciò che la rendono diversa dallo spleen. Lo spleen è una condizione di confine, in cui si avverte l'insignificanza delle cose, e nemmeno si ha voglia di dargli un significato, ci si lascia andare in qualche modo a questa perdita di valore, senza speranza e senza appetito. Sembrerebbe, detto così, uno stato depressivo, e forse lo è. Ma mentre lo stato depressivo è permanente, lo spleen si svolge nell'arco di un pomeriggio, o al limite qualche giorno, è dunque transitorio. A questo punto perchè non dire che lo spleen è semplicemente tristezza o malinconia? La tristezza viene dagli affetti, o da qualcosa che ci è "andato storto", quindi ha in qualche modo un origine personale. E' però vero che una condizione di tristezza può degenerare a spleen e questo non è raro che capiti. Ma dove sta dunque questa differenza? La tristezza è anche una presa di consapevolezza di qualcosa che è accaduto nella mia vita, un fatto lavorativo, un fatto relazionale, un amico che ci addolora, una persona che ci delude. La tristezza dipende in qualche modo dalle nostre aspettative e dai nostri bisogni intimi, e può essere ricondotta a una serie di cause e avvenimenti che ci rappresentano e che ci hanno coinvolti. Mentre lo spleen sembra non avere alcuna motivazione e scopo, la sua origine appare più oscura ed esistenziale. Lo spleen non cerca bisogni, e non ha mancanze di alcun tipo, nostalgìe o ricordi. E' piuttosto come una specie di tabula rasa. L'insignificanza che è la sua maggiore peculiarità è anche ciò che lo rende transitorio, poichè è quasi impossibile non percepire il valore delle cose per più di un certo tot di tempo. Quando arrivi allo spleen stai già risalendo, è un po' come il fondo del mare, quando provi a immergerti per toccarlo trattenendo il respiro più che puoi: una volta che sei arrivato a toccare la sabbia devi risalire, non c'è molto altro da fare, e pur volendo restare non puoi, poichè a cosa ti aggrappi e a che scopo? la pressione dell'acqua ti riporterà essa stessa verso l'alto. Eppure quante volte ti sei immerso per andare sott'acqua, prendere la sabbia e nuotare trattenendo il respiro?
Lo spleen è dunque una condizione emotiva più insondabile della noia e dificile da decifrare o esprimere. Rimane sempre misteriosa, inquietante e pericolosa, eppure ha un oscuro fascino che ci porta a chiederci in che modo ci arricchisce, che cosa ci offre.


Ma voglio dunque continuare ad osservare la differenza tra noia e spleen? Continuare ad esaminare le peculiarità delle due, per poter poi finalmente comprendere quale delle due è più auspicabile per l'animo umano, quale delle due ha più potere creativo? Quale maggiormente ci arrichisce e nutre o quale delle due ci permette di "aprire la nostra mente"? Not now nor ever. Ciò che è misterioso è più forte di noi e non necessita spiegazioni utilitaristiche. Come se l'una fosse migliore dell'altra o più utile, più necessaria. Come se la creatività avesse un unico luogo d'origine, come se volessi facilitarmi la vita conoscendo finalmente l'origine di tutti gli atti creativi: come uno scienziato pazzo che vuole toccare l'invisibile.
Voglio chiedermi piuttosto se lo spleen è qualcosa che cerco o è qualcosa che accade in me? Questo si. E la risposta forse non arriverà mai.
Grazie della lettura.

sabato 14 marzo 2020

Dialoghi immaginari al tempo del Coronavirus



- Ma lei? Cosa sta facendo qui?
- Io? Dipingo.
- Dipinge.
- Sto dipingendo.
- Ma perchè dipinge qui? Si rende conto di quello che sta facendo? Perchè non dipinge a casa sua?
- Perchè all'aperto è più bello e poi mi piace questo fiume...
- E se tutti facessero come lei? Se tutti venissero qui a dipingere? Intendo dire proprio tutti: bambini, giovani, adulti, anziani, tutto il paese qui a dipingere come lei. Si rende conto della situazione che si creerebbe, a stare tutti così vicini? Perchè qui non ci sarebbe abbastanza spazio ovviamente, e tutti dovrebbero stare vicinissimi gli uni con gli altri, necessariamente, e quella sarebbe una grave situazione di pericolo. Ho ragione o no? questo lo capisce?
- Si, ma mi sembra piuttosto improbabile che a "tutti" improvvisamente, dal nulla, gli venga in mente di dipingere e vengano proprio qui a farlo.
- Ma stia a casa a dipingere, su, per piacere! Dipinga ciò che ha in casa, dei fiori, una pentola, un posacenere, ci son tante cose a casa!


-Ma in verità non ho tante cose a casa e poi a me piace dipingere questo; le canne, l'acqua, le nuvole, sono i miei soggetti preferiti.
- Ma insomma, un piccolo sacrificio! Andiamo, su! E io cosa dovrei dire allora? A me piace andare in biblioteca e stare lì a leggere. Al caldo, seduto comodo sulle sedie imbottite. Immagini se tutti, ma proprio tutti, bambini, giovani, adulti, anziani, tutto il paese dico, tutto in biblioteca! Tutti dentro a leggere un libro, una rivista, un saggio, un romanzo, eh? Cosa succederebbe? Se la immagina la situazione? Se lo immagini. Mi dica lei, capisce il rischio a cui si andrebbe incontro? E' troppo pericoloso. Ma io sto a casa, io leggo a casa mia, così è giusto, così si fa.
- Ma quando mai adesso, tutti in biblioteca... nessuno ha voglia di andare in biblioteca!
Bisogna fare dei sacrifici. Prenda mio fratello; a mio fratello piace andare a teatro, all'opera, Gli piacciono le opere di Mozart, Leoncavallo, Boccherini.
- Anche a me piace andare a teatro.
- Bravo! e allora si immagini se tutti andassero a teatro: tutti insieme: bambini, giovani, adulti, anziani, operai dottori avvocati fruttivendoli salumieri netturbini notai, tutto il paese, tutti all'opera, tutti dentro il teatro! si immagina quanto sarebbe rischioso? tutti troppo vicini, e prima che l'opera cominci, prima che s'alzi il sipario, tutti a ridere e chiacchierare, ad alitarsi in faccia, poi li voglio vedere dopo, a casa,  li voglio vedere quando staranno male se avranno ancora voglia di chiacchierare!
- Non ci sono nemmeno teatri qui perciò proprio il problema non si pone.
- Ma non importa! E' il concetto quello che conta, il concetto! Si immagini se adesso tutti andassero a passeggiare in montagna, nei prati, nelle valli o sulla cima del monte. Si immagina? Guardi che le montagne non sono così grandi. Guardi che le montagne sembrano grandi ma ci vuole poco a riempire una montagna. Metta che i bambini, i giovani, gli adulti e gli anziani decidano tutti così, scriteriatamente, di andare a fare una passeggiatina in montagna, in mezzo alla natura, in mezzo agli uccellini e ai cervi: "E tanto una passeggiatina cosa mi farà mai?" e Tutti ragionano così, e tutti si fanno la passeggiata, medici avvocati notai fruttivendoli netturbini operai salumieri camionisti. Tutti, tutti, tutti in montagna.
- Ma è impossibile che tutti vadano in montagna nello stesso momento!
- Le dico che i sentieri si riempirebbero in fretta, non ci sarebbe spazio per camminare e allora cosa farebbe la gente? Tutti lì nei boschi, nei prati, a fianco ai ruscelli e magari seduti sulle rocce a
a gozzovigliare, a mangiare uova sode e bere vino e birra, a ridere e chiacchierare, a prendere il sole e, inevitabilmente, alitarsi in faccia. Alitarsi in faccia! E i bambini che corrono sui prati e si buttano a terra per giocare, urlando e ridendo, e intanto si toccano! tutti contenti e felici. E certo, toccatevi pure, bravi, bravi. E poi se ne rientrano a casa. E a casa cosa succede? Succede che stanno male! E si direbbero, disperandosi e pentendosi: "Ma chi me lo ha fatto fare di andare in montagna, chi?" Lei è questo che vuole? Secondo lei è giusto? Lei andrebbe in montagna?
- Io in montagna ci vado quando mi pare e piace.
- A beh, certo. Lei è tranquillo, lei si sente sicuro così.
- Ma insomma, non proprio.


- Magari lei va anche a correre o in bicicletta, va a fare gli esercizi vero? ma si immagini lei se tutti andassere a correre e fare esercizi e stretching? Bambini, giovani, adulti, e anziani che si vogliono tenere in forma, tutti a fare esercizi; operai avvocati medici notai macellai grossisti fruttivendoli allevatori contadini matematici taxisti autisti infermieri,  tutti i lavoratori di questo mondo, tutti, pure quelli in pensione, a correre e fare esercizi. Magari qui in questo parchetto. Sarebbe pieno di gente. Gente che sbuffa, che alita, che suda. Quanto sudore ci sarebbe nell'aria... sarebbe completamente ammorbata. E tutti a sbuffare per tenersi in forma, e poi a casa, e a casa che succede? Succede che si pentono! Perchè si ammalerebbero, ecco quello che succederebbe! E li voglio vedere allora se ci pensano due volte prima di andare a correre dopo che si ammalano, li voglio vedere!
- Guardi non c'è proprio questo pericolo che tutto il paese si decida a venire qui a correre.
- Ma non è questo che voglio dire! E' il concetto, mi capisce? il Concetto! Io l'ho vista anche ieri qui, me ne sono accorto, l'ho vista. E stava meditando, mi sbaglio? Io conosco la meditazione guardi, ho intuito che lei stava qui in riva al fiume a meditare. E non va bene. Ma perchè non medita a casa sua? lei si immagina se tutti, bambini, giovani, adulti, anziani...
- Ma lei invece? Ora glie la faccio io una domanda.
- Io? Io cosa?
- Dico, lei cosa è venuto a fare qui?

END

domenica 8 marzo 2020

Io, Goethe e il Situazionismo.

Mi è venuto in mente di postare qui sul blog i ritratti di quei personaggi storici, scrittori, artisti saggisti, che hanno lasciato qualcosa in me e hanno segnato il mio percorso artistico e di vita.
Allora comincio oggi con una importante figura del secondo 900, forse un po' sottovalutata o comunque poco conosciuto:
Guy Debord.






Guy Debord è stato uno dei più importanti esponenti del Situazionismo, l'ultima grande corrente avanguardistica del 900 che si proponeva di rivoluzionare la vita e la società.
Quando avevo 20 anni sono stato enormemente affascinato dal movimento Situazionista: il Dadaismo lo avevo esaurito, i futuristi mi stavano sulle palle, i surrealisti mi avevano incuriosito, i cubisti mi lasciavano perplesso, ma  tutti gli "ismi" erano comunque  interessanti perciò questo ultimo movimento che si proponeva come l'unico vero movimento rivoluzionario del 900 divenne per me un punto di riferimento. Perciò lessi "La società dello spettacolo", importante saggio scritto appunto da Debord, che diventò quasi (dico quasi) una bibbia del mio approccio all'arte, e mi comprai addirittura la raccolta di tutte le uscite de "L'internazionale Situazionista", che fu la rivista principale del movimento dal 1958 al 1969.






In quello stesso periodo vissi a Firenze per circa due anni, e alla libreria Feltrinelli della città, che mi piaceva frequentare perchè era gigantesca, trovai una rivista di critica e saggistica che si presentava con enigmatiche copertine, si chiamava "Invarianti", e vi si trovavano articoli di antropologia, estetica, geopolitica, ma oviamente era il tono della rivista a risultare attraente. Era una rivista Italiana e la sua prospettiva culturale era per l'appunto di area Situazionista. In particolare ricordo un lungo articolo di approfondimendo sul fenomeno "Luther Blisset", che tendeva a smascherarne gli autori e mettere in luce il suo aspetto più truffaldino e illusoriamente rivoluzionario. Come i Situazionisti, il gruppo di intellettuali di invarianti sparavano colpi duri in maniera elegantemente sprezzante, creativa e spietata.






Io utilizzavo il situazionismo per spostare il mio sguardo, vedere le cose da un'ottica nuova, e poi c'era onnipresente nel movimento questa spinta a rivoluzionare la società, l'arte, le persone, l'architettura delle città. Tutto doveva cambiare, perchè la società dei consumi era una società diabolica e malata, che rendeva le persone spettatori passivi e beoti, ed io mi ritrovavo in questo sguardo perchè il mondo attorno a me non mi dava alcuna soddisfazione e allora dentro di me pensavo che " ...se non ho soddisfazione allora è la società che fa schifo, deve cambiare qualcosa!" E dunque pensavo che l'arte dovesse contribuire a cambiare la società, pensavo che un'artista dovesse fare arte sulla spinta di questo presupposto. Oggi non faccio più arte su queste basi. Non ho più delle basi "stabili" in verità, ma sento che così vado molto più a fondo perchè credo che la principale base del mio fare arte è data da ciò che sento; la pittura e l'arte per me ora è come una infinita orchestra interiore che cerca di accordarsi. Non per suonare una bella sinfonia, ma per trovare un'armonia, un suono che si senta completo e vibri nell'aria con equilibrio e abbia una sua vita composta da migliaia di strumenti.
Perciò oggi non so esattamente cosa ci sia in me di Situazionista o di Debordiano. Ma qualcosa credo che ci sia, e probabilmente chi mi conosce dirà che io sono situazionista fin dalla nascita.






 Mi viene in mente per esempio la psicogeografia, che è una metodologia di indagine dello spazio urbano teorizzata negli anni 50 dal movimento Lettrista, e che fu tanto cara ai Situazionisti, un attidune psichica prima ancora che culturale, di percepire lo spazio urbano, che Debord definiva in questo modo:
"Per fare una deriva (deriva psicogeografica ) andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari."
Beh, questo è esattamente ciò che faccio quando vado in cerca di un soggetto. In particolare anch'io ho lo sguardo che tende verso l'alto! Perciò il mio vagabondare è decisamente una deriva psicogeografica. Questo momento di ricerca è molto importante per me, passo interi pomeriggi a girare "a vuoto", osservare e sentire me stesso attraverso le cose. E' in questo modo che ho guardato Oristano e che sono nati diversi lavori in B/N a tema urbano. E' in questo modo che osservo la città girandoci attorno, prendendo stradine di campagna per trovare nuovi angoli, nuove prospettive. E' in questo modo che mi becco valanghe di disagio esistenziale e spleen, che è parte del carburante che utilizzo per creare. Perciò più che rivoluzionario avanguardista, mi sento più Goethiano, più romantico, cioè mentre per le avanguardie la spinta al cambiamento e l'utopia è il motore della creatività, per me invece è il dolore, il disagio, la "noia" esistenziale il vero fuoco perverso dell'arte.

Qui maggiori informazioni a proposito di Situazionismo:
https://1995-2015.undo.net/it/magazines/1332427537